“Andrò in giro per le strade/ zufolando, così,/ fino a che gli altri dicano: è pazzo! E mi fermerò soprattutto coi bambini/ a giocare in periferia,/e poi lascerò un fiore ad ogni finestra dei poveri e saluterò chiunque incontrerò per via inchinandomi fino a terra”.
È Davide Maria Turoldo a raccontare con una poesia il suo mattino di Pasqua. C’è una domanda, seguita da una risposta, che di quando in quando interrompe lo scorrere del testo: “E dirò alla gente: avete visto il Signore? Ma lo dirò in silenzio e solo con un sorriso”.
Oggi abbiamo non poca difficoltà a trovare parole di speranza, come sono quelle di Pasqua, perché davanti ai nostri occhi scorrono le immagini di una sofferenza immane e, purtroppo, anche di una indifferenza immane.
La poesia di Turoldo potrebbe apparire fuori dalla realtà.
C’è però un messaggio splendido nelle sue parole, c’è un suggerimento lieve su come attraversare questo nostro tempo senza smarrire la direzione della Pasqua.
Due atteggiamenti, in particolare, prendono spazio tra le righe della poesia: il silenzio e il sorriso.
Il silenzio è una comunicazione muta ma ricca di pensieri e di vibrazioni dell’anima che si incontrano e si intrecciano.
Di fronte all’immensità del dolore di bambini, donne, uomini è questo silenzio che parla e poi di fronte alla sofferenza degli innocenti genera denuncia dell’ingiustizia e proposta di giustizia.
Nascono qui parole capaci di comunicare speranza, di opporsi ai muri e di costruire ponti.
E poi il sorriso.
L’espressione solare e accogliente del volto è sempre una comunicazione incoraggiante e lo diventa ancor più quando la persona a cui si rivolge è nella prova, nell’anonimato, nel rifiuto. Ma il sorriso è anche un gesto concreto, è la mano che stringe l’’altra, è lo spazio che si apre dentro di sé per fare posto al nuovo arrivato, al diverso, allo straniero.
Sono grandi amici il sorriso e il silenzio. Hanno un linguaggio universale, un linguaggio che attraversa il tempo e lo spazio con i passi di un uomo che inciampa, cade, si rialza, viene ucciso. Ma non muore. Le parole si fermano davanti a quest’uomo, davanti al mistero della sua sofferenza e del suo amore. Davanti alla sua ultima parola che non è quella della morte.
Con questi pensieri Turoldo ci accompagna con il suo zufolo, cioè con la sua poesia, sulle strade e sulle piazze e…poi?
“…e poi non lascerò mai morire/ la lampada dell’altare e ogni domenica mi vestirò di bianco”.
Ecco il linguaggio della Pasqua, fatto di silenzio e di sorriso, fatto della follia di uomini e donne che camminano non dietro ma accanto al suonatore di zufolo, allo sconosciuto che, creduto morto, sorprende due donne nella luce di un mattino e due viandanti sul far della sera.
Paolo Bustaffa